COLPI
D’ASCIA……TRACCIANDO LA SCIA
FRAMMENTI DI UN ARTE AL TRAMONTO
Di
ANTONELLA MARGARITO
Si cambia musica. Dalle percussioni, alla musica
elettronica, dai ritmi etnici ai suoni stereotipati
che fanno tanto “globale”. E’
la musica dei cantieri navali. I musicisti? I
maestri d’ascia; personaggi in via d’estinzione,
nemmeno inseriti tra le specie protette. E così,
è sempre più difficile che alle
orecchie del passante arrivino i colpi ritmati
di quell’ascia che dava vita alla forma,
creava, piegava i fasciami fino a plasmare le
anime di quel legno così come l’arte
del maestro voleva. L’arte del maestro e
l’ascia; in una sorta di duetto (o duello?
) che finiva sempre con la resa di quel pezzo
di legno, vinto, davanti alla forza e alla professionalità
di quel così raro maestro. < Un tempo
la città era tutto un risuonare di questi
ritmi, sembrava un atelier musicale, da una parte,
nella città vecchia, il tam tam dei maestri
bottai, estinti pure loro, appena un po’
più in qua, praticamente sul mare, quello
dei maestri d’ascia. Era quasi un continuo
comunicare di una città operosa in quella
che era la sua peculiarità. Oggi si lavora
ancora con l’ascia ma per modellare il legno
si usano molto anche altre attrezzature , macchinari
elettrici, flex con carta vetrata grossa. Insomma
oggi nel cantiere i suoni somigliano di più
a quelli di un circuito automobilistico>. Sorride
e racconta Antonio Magno, uno degli ultimi e dei
pochi maestri d’ascia gallipolini. Gli occhi
azzurri che ricordano il mare e quella pelle,
perennemente abbronzata, anche sotto il grigio
e la pioggia di una gelida giornata di gennaio.
E come sa di sale…questo lavoro. Racconta
di suo padre, che quel mestiere lo ha insegnato
a lui e a suo fratello Carlo, morto troppo giovane
con una di quelle malattie che non perdonano,
e ora è lui che tramanda l’arte ai
suoi due figli. Suo padre Cosimo a sua volta l’
aveva imparato stando imbarcato per sette anni
su quella goletta gemella dell’Amerigo Vespucci,
Cristoforo Colombo si chiamava quel veliero, divenuto
poi bottino di guerra dei russi che lo violentarono,
disalberandolo. Oggi, ridotto in schiavitù
, trasporta carbone in questo o quel mare. Cosimo
era una maestro d’ascia sopraffino perché
si occupava anche dei fregi; fu lui, infatti,
ad occuparsi della doratura della polena della
Colombo. I ricordi si affastellano e non è
facile parlare e inquadrare questo mestiere, <più
antico del mondo>, dice Antonio Magno. Ma chi
è il maestro d’ascia e come lo si
diventa? “Maestro d'ascia - Può costruire
e riparare navi e galleggianti in legno di stazza
lorda non superiore alle centocinquanta tonnellate.
(requisiti: ventuno anni di età, avere
lavorato per almeno trentasei mesi, come allievo
maestro d'ascia, in un cantiere o in uno stabilimento
di costruzioni navali, avere sostenuto con esito
favorevole apposito esame, requisiti morali)”.
Tanto si legge sul codice della navigazione. Curioso
pensare che non esiste una scuola che abiliti
a questo lavoro. L’unico modo per impararlo
è quello di andare a “bottega”
come si faceva con il barbiere, da un maestro
che ti scruta, misura i tuoi “requisiti
morali” e ti mette in prova. Questa sorta
di praticantato dura tre anni, una sorta di mini
laurea e comunque il tempo minimo occorrente per
sostenere gli esami, presso le competenti capitaneria
di porto davanti ad un ingegnere e ad un ufficiale
di marina che ci si chiede cosa ci “azzecca”
con il lavoro d’ascia e “calafato”(scalpello
piatto usato per chiudere in modo “stagno”
le fessure del legno: “calafatura”).
Nemmeno un maestro d’ascia nella commissione
d’esami? <No, da sempre è così>,
scuote il capo maestro Antonio, forse perché
l’uomo dell’ascia faticherebbe a dire
sì ad un altro futuro maestro di allievi
e di cantiere. La concorrenza, ha leggi a volte
sleali. Anche se oggi il pericolo è sventato:
ormai gli allievi si contano proprio sulla punta
delle dita. Sono 14 i maestri d’ascia iscritti
nell’elenco del compartimento della capitaneria
di Porto Gallipolina, che fa capo dunque a tutta
la provincia di Lecce, di cui dieci di Gallipoli
( nomi noti, oltre ai Magno, spiccano Pianoforte,
Saponaro ecc.), due di Porto Cesareo, uno di Galatone
e uno di Leverano. Soltanto sedici, sempre in
tutta la Provincia di Lecce, gli allievi. Bisognerà
poi vedere se quella flotta di sedici che parte,
“ascia” in resta, arriverà
integra a destinazione; il lavoro è duro,
difficile, si vive al freddo e all’umidità,
Antonio Magno questo lo sa bene: ha cominciato
a lavorare con suo padre ancora bimbetto, sei
anni aveva, e sgambettava tra le “costole”
di quei pescherecci in nuce, fantasticando tra
quei leviatani, fedeli compagni di giochi. <Non
bastano certo tre anni per imparare, ce ne vogliono
almeno dieci per cominciare a capire bene il mestiere>.
Difficoltà nella difficoltà: oggi
le flottiglie pescherecce vanno a diminuire. Sempre
da un monitoraggio della Guardia Costiera Gallipolina
si evince che 15 sono stati i nuovi pescherecci
in legno costruiti nel 1995, per arrivare al 2004
dove solo una è l’imbarcazione in
legno di nuova costruzione, dal 99 in poi inizia
la tendenza relativa alla vetroresina che i pescatori
guardano però con diffidenza, perché
non darebbe le stesse prestazioni, anche in fatto
di sicurezza. Però c’è la
manutenzione e lì non si scherza, ce ne
vorrebbero di cantieri in ogni città di
mare. Andando un po’ più a nord della
Puglia, sembra infatti, che ancora questo mestiere
sia rigoglioso, sempre ed in modo particolare
per quel che attiene la manutenzione però.
Basti pensare alle grandi flottiglie di pescherecci
esistenti a Molfetta o ancora a Monopoli. Anche
Manfredonia possiede i suoi bei cantieri corredati
di maestri d’ascia esperti. Sono quattro:
Castigliego, Fortunato, Gargano, Rucher, il più
grande dei quali è quello della Cooperativa
"Alfredo Rucher". Quest'ultimo cantiere
costruisce barche superiori a cento tonnellate
di stazza lorda. Tra i maggiori rappresentanti
di questa gloriosa arte si ricordano a Manfredonia
i fratelli Gaetano, Antonio e Raffaele Prencipe,
Giuseppe Colaianni e figli Andrea e Giuseppe;
Michele Fortunato; Matteo e Alfredo Rucher.
Questi ultimi sono ancora viventi.
A Taranto invece, le notizie che arrivano rivelano
che questo mestiere si sarebbe davvero estinto.
Sembra che, al pari di una mosca bianca, solo
uno sia il maestro d’ascia in attività.
Colpa dell’industria. E’ stata l’Italsider
che ha requisito negli anni sessanta tutta la
manovalanza di giovani. Che hanno rincorso il
mito dell’impiego, se pure alienante, e
da operaio, magari “rampante”, in
una fabbrica grigia e fumosa che niente poteva
avere a che fare con il colore dell’azzurro
con la poesia della creatività e con la
musica, di quelle percussioni, così etniche,
così indigene….
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